I bambini selvaggi
Abbandonati o persi nella giungla, destinati a una fine di stenti per fame, freddo o a diventare vittime di predatori. Eppure scampati alla morte e ritrovati dopo anni, nudi, con gli occhi assenti, incapaci di camminare eretti e di parlare, adattati a muoversi velocemente a quattro zampe o ad arrampicarsi sugli alberi. Sono i ragazzi selvaggi, poco meno di 100 casi registrati nella letteratura e nelle cronache degli ultimi secoli. Ma come hanno potuto farcela a copravvivere in condizioni così dure?
Riconoscere l’esistenza di ragazzi (o bambini) selvaggi significa ammettere la possibilità che esseri umani a partire da circa 2 anni di età possano resistere in un ambiente selvatico nutrendosi di foglie, erba, bacche, radici, uova di uccelli e piccoli animali, come insetti, rane e pesci. O che possano farlo aiutati da altri mammiferi.
Ospiti degli animali. «È pensabile che alcuni animali tollerino la presenza di un piccolo della specie umana. Stando in contatto anche solo visivo con loro, un bambino può così individuare fonti d’acqua e di cibo, ripararsi la notte in luoghi caldi e sicuri» dice Angelo Tartabini, docente di Psicologia evoluzionistica all’Università di Parma.
Gli studi di Konrad Lorenz, il padre dell’etologia, sulle caratteristiche infantili nelle specie di mammiferi, indicano che essere paffutelli, con testa grande e rotonda, muoversi in modo goffo, sono caratteri che inibiscono l’aggressività e innescano istinti protettivi anche nei confronti di cuccioli di altri. Dopotutto i bambini, cioè i cuccioli di uomo, non sono troppo diversi da quelli delle scimmie e come gli altri animali possono anche subire un imprinting da parte della specie che li ha adottati, finendo per assomigliare ai nuovi “genitori”. Per questo nella letteratura si parla di bambini lupo, bambini orso, bambini gazzella o bambini scimmia.
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